«Che bella stanza» dissi io. «È la prima volta che la vedo.»

«Puzza.» Continuò a fissare il teleschermo, o, per essere più esatti, la faccia di Fred Astaire, seduto al volante di un'automobile da corsa. Dopo un secondo, mi accorsi che la macchina era appoggiata su alcuni blocchi all'interno di un garage.

«Forse è l'odore dei mobili nuovi» ripresi io, ottenendo, in cambio, nulla più di uno sguardo laconico. Dopodiché Alison sbuffò e ritornò a guardare la tv.

«Che film è?»

«Sulla spiaggia. Mi piace un sacco» rispose lei, senza girare la testa. Poi scacciò una mosca che le si era posata sulla coscia. «Che ne diresti di lasciarmelo vedere in santa pace?»

«Scusami tanto, non volevo disturbarti.» Mi diressi verso un'ampia poltrona che si trovava dalla parte opposta della stanza e mi ci accomodai. Rimasi a fissarla per un minuto o due, durante i quali nessuno di noi due parlò. Alison cominciò a muovere ritmicamente un piede avanti e indietro e, dopo un po' prese a tormentarsi la faccia. Continuò così per alcuni minuti, finché, senza staccare gli occhi dal video, mi rivolse nuovamente la parola.

«È sulla fine del mondo. Mi piace, come idea. E stato Zack a consigliarmi di vederlo. Lui l'ha già visto. Abiti a New York?»

«A Long Island.»

«Cioè a New York. Mi piacerebbe vederla, là c'è tutto.»

«Cioè?»

«Dovresti saperlo. Zack sostiene che presto tutto finirà, forse con qualche terremoto o con qualche bomba tirata da chissà chi, ma dice che di qualunque cosa si tratti, tutti pensano che accadrà prima a New York. Invece no. Accadrà prima qui. Zack dice che ci saranno cadaveri in tutto il Midwest.»

Io le risposi che, detta così, sembrava quasi che Zack non vedesse l'ora che accadesse.

Alison si rizzò a sedere, come un lottatore sul tappeto e, per un attimo, distolse l'attenzione dal teleschermo. «Lo sai che cosa hanno trovato nella discarica di Arden un paio di anni fa? È accaduto poco prima che io iniziassi le superiori. Due teste nascoste in due sacchetti di carta. Teste di donna. Non hanno mai scoperto chi fossero. Zack dice che quello era un segno.»

«Un segno di che cosa?»

«Quello è stato l'inizio. Fra poco non ci saranno più scuole, non ci saranno più governi e non ci saranno più eserciti. Non ci sarà più niente di tutta questa merda. Solo uccisioni e morte. Per molto tempo. Come all'epoca di Hitler.»

Mi resi conto che aveva intenzione di fare colpo su di me. «Adesso comincio a capire perché a tuo padre non piace Zack.»

Lei mi lanciò un'occhiata furiosa, poi, aggrottando la fronte, riprese a guardare la televisione.

«Immagino che conoscessi la ragazza che è stata assassinata» ripresi io.

Alison sbatté le palpebre. «Certo che la conoscevo. È stata una cosa terribile.»

«Immagino che questa disgrazia sia una riprova della veridicità della tua teoria.»

«Non essere raccapricciante.» Uno sguardo smorto e imbronciato da parte del piccolo guerriero.

«Mi piace il tuo nome.» In verità, nonostante quel suo odioso modo di fare, cominciava a piacermi. Non possedendo la fiducia in se stessa della sua omonima, non era capace di esercitarne il fascino spaventoso, ma la eguagliava senz'altro in quanto ad energia.

«Puah.»

«Porti il nome di qualcuno?»

«Senti, non lo so e non mi interessa saperlo, okay?»

Sembrava che la nostra conversazione fosse giunta ad un binario morto. Con un'aria che sembrava sottendere la possibilità che sarebbe rimasta in quella posizione per il resto dei suoi giorni, Alison riprese a guardare il film. Gregory Peck e Ava Gardner stavano attraversando un prato tenendosi a braccetto e, dall'espressione del loro viso, sembrava che anche a loro non dispiacesse l'idea della fine del mondo. Ma prima che io avessi il tempo di alzarmi e di uscire dalla stanza, Alison ricominciò a parlare.

«Non sei sposato, vero?»

«No.»

«Ma non ti sei mai sposato? Non eri sposato una volta?»

Io le ricordai che lei era anche stata al mio matrimonio.

Adesso mi fissava di nuovo, come se non gliene importasse più niente della mascella contratta di Gregory Peck o del petto ansimante di Ava Gardner.

«Allora hai divorziato. Come mai?»

«Mia moglie è morta.»

«Gesù benedetto! Morta! E tu? Ne sarai rimasto sconvolto. È stato un suicidio?»

«No, è stata una disgrazia. Comunque ne sono rimasto ugualmente sconvolto, anche se non per i motivi che pensi tu. Vivevamo separati da un po'. La cosa che mi sconcertò di più fu il fatto che un essere umano, con il quale avevo avuto un rapporto così intenso e così stretto, fosse morto senza una ragione.»

Alison stava reagendo alla mia presenza con estrema vivacità. Una reazione quasi sessuale, direi: ricordo di aver avuto l'impressione di sentire la sua temperatura aumentare e di aver pensato, per un attimo, che sapesse di sangue. «L'hai lasciata tu o ti ha lasciato lei?» Aveva piegato una gamba sotto il sedere e aveva appoggiato la schiena al divano, cosicché adesso era seduta diritta e mi fissava con quei suoi occhi smorti color del mare. Io ero meglio del film.

«Non penso che sia importante e, in ogni caso, non sono affari che ti riguardano.»

«Allora è lei che ti ha piantato» concluse con voce decisa.

«Forse ci siamo lasciati e basta.»

«Pensi che abbia ricevuto quello che si meritava?»

«Ma no. Che cosa dici?»

«Mio padre avrebbe detto di sì. Lui la pensa a questo modo.» Finalmente capii il significato di quelle strane domande e, con mia grande sorpresa, provai pena per lei. Per tutta la vita aveva dovuto fare i conti con l'atteggiamento di sospetto che suo padre nutriva nei confronti delle donne. «E anche Zack.»

«Be', il mondo è bello perché è vario.»

«Ah» grugnì lei. Quello era senz'altro il commento più adatto a quella mia battuta scontata. Dopodiché, con un mezzo salto, si girò dall'altra parte per guardare il film. Adesso l'udienza che quella piccola, complicata regina guerriera mi aveva concesso era davvero finita e lei mi stava congedando.

«Non c'è bisogno che mi indichi la strada» dissi e me ne andai. Dalla parte opposta della cucina, nel piccolo vestibolo che precede la porta, c'era l'ingresso del seminterrato. Ne aprii la porta e tastai il muro con la mano, alla ricerca dell'interruttore della luce. Quando lo trovai e l'accesi, la lampadina illuminò soltanto la scala di legno e uno scorcio di pavimento pieno di cianfrusaglie. Cominciai a scendere con cautela.

 

Mi secca ancor oggi il fatto di non aver parlato a Duane delle strambe teorie di sua figlia. Ma avevo sentito cose ben più assurde uscire dalla bocca dei miei studenti, anzi, soprattutto da quella delle mie studentesse, e così, mentre, con la schiena china e le braccia protese in avanti, attraversavo la cantina di mio cugino sperando di aver mirato il muro occidentale, giunsi alla conclusione che con ogni probabilità le conoscesse già: dopo tutto era stato lui a dirmi che Zack era un tipo strano e mi trovava perfettamente concorde. In più, i loro problemi famigliari venivano in secondo luogo, per non dire in terzo o addirittura quarto, rispetto a quelle che erano allora le mie priorità: e cioè Alison Greening, il mio lavoro e il mio benessere. Mea culpa. Senza contare che avrei procurato ad Alison Updhal più problemi di quanti non gliene creasse già la sua età adolescenziale.

Ad un tratto, colpii con la mano fasciata qualcosa di piatto, che iniziò a dondolare. Allungai la mano destra per cercare di fermarlo, e senza volerlo afferrai un manico di legno lungo e liscio: anche quello stava oscillando. Dopo averlo tastato con la punta delle dita mi accorsi che si trattava di un'ascia. Improvvisamente capii il rischio che avevo corso: se solo, per sbaglio, l'avessi spinta fuori dal gancio, l'ascia mi sarebbe caduta sul piede e addio piede. Imprecai ad alta voce e muovendomi cautamente sondai l'aria alla ricerca di altre asce. Individuai un altro manico, poi un terzo e un quarto. Nel frattempo i miei occhi si erano abituati all'oscurità e adesso riuscivo a discernere, accanto ai quattro manici scuri che pendevano da uno dei supporti del soffitto, alcuni rastrelli e diverse zappe. Mi feci strada aggirandoli e zigzagando fra alcuni sacchi di cemento. Inciampai in una pila di cataloghi di articoli agricoli. Dietro questi, appoggiata al muro intravvidi una lunga fila di strane cose simili a mummie nane e rinsecchite. Dopo un attimo mi resi conto che si trattava di fucili e di schioppi, ordinatamente riposti nelle rispettive custodie; una sopra l'altra, ad una delle due estremità della fila, c'erano le scatole delle cartucce. Come la maggior parte dei contadini, Duane non sentiva alcun bisogno di esporre le proprie armi in bella vista. Finalmente mi parve di scorgere quello che stavo cercando. Inclinato contro il muro, proprio come Duane mi aveva spiegato, c'era il pannello di una vecchia porta dì legno, il piano ideale per una scrivania. Aveva strani pomelli, ma toglierli sarebbe stato un gioco da ragazzi. Forse Duane avrebbe voluto tenerli... Quando mi avvicinai, mi accorsi che i pomelli erano di vetro sfaccettato. Dietro la porta c'erano i due cavalietti, quelli che Duane usava per segare la legna: erano posti l'uno sopra l'altro e ricordavano due insetti sorpresi durante la copula. Dietro i cavalietti c'era una cassa di bottiglie di Coca-Cola vuote, il vecchio tipo da 250 ml, che mi fissarono con le loro bocche nude e suggenti.

Pensai di chiamare Alison per farmi dare una mano, ma poi decisi di non farlo. Avevo già commesso abbastanza errori quella mattina e non volevo correre il rischio di compierne un altro e di turbare la fragile pace che regnava fra di noi. Così salii dapprima con i cavalietti e li portai sul prato dietro la casa; quindi ridiscesi a prendere il futuro piano della mia scrivania.

Il lungo rettangolo di legno era molto più difficile da trasportare dei cavalietti. Ciò nonostante riuscii a portarlo su per le scale, senza urtare neanche uno dei fucili allineati contro il muro o una delle asce appese al soffitto, e senza mandare in frantumi le vecchie bottiglie di Coca con i loro fianchi a guisa di violoncello. Una volta arrivato in cima alle scale, però, mi pentii amaramente di non aver chiesto l'aiuto di Alison, perché il mio petto si sollevava e martellava come se all'interno vi si dibattesse una trota moribonda. La mano ferita mi faceva male. Feci scivolare la porta sul linoleum, sgualcendo diversi stracci appesi ai ganci, poi con il gomito aprii la porta a zanzariera e trascinai il mio fardello sugli scalini di cemento che conducevano al prato. Ero madido di sudore e senza fiato. Dopo essermi asciugato la fronte con la manica della camicia, appoggiai la porta contro i cavalietti e la guardai deluso: la vernice bianca era ricoperta da una trina fitta di ragnatele, polvere e insetti.

La soluzione, il tubo dell'acqua, era ai miei piedi. Aprii il rubinetto e inondai d'acqua la porta fino a quando tutto lo sporco se ne fu andato. Alla fine fui tentato di rivolgere il getto su di me: avevo le mani nere, la camicia sudicia e il sudore che mi colava dai capelli, ma mi limitai a sciacquarmi le mani, cercando di bagnare il meno possibile la fasciatura. L'applicazione di una sostanza magica.

L'acqua fresca!

Lasciai cadere il tubo di gomma e attraversai di corsa il prato puntando verso il granaio. Guardando a destra vidi la testa e la parte superiore del tronco di mio cugino che sobbalzava in cima all'invisibile trattore, come se fosse sospinto dalle raffiche irregolari di un vento perverso. Raggiunsi il vialetto d'accesso. Il cane cominciò ad assalirmi con ringhi nervosi e arroganti. Finalmente arrivai alla cisterna, immersi la mano destra nell'acqua fredda e verdognola e serrai le dita intorno alla bottiglia di birra su cui si era depositato il mio fazzoletto insanguinato. Estrassi la bottiglia gocciolante e, nel momento in cui, dopo averla stappata, stavo per trangugiare la prima sorsata del liquido frizzante, vidi il viso incorniciato di biondo della regina guerriera che mi sorrideva dalla finestra della cucina. Mi fece l'occhiolino. Subito dopo ci scambiammo un grande sorriso e io sentii il groviglio di emozioni, che si era formato dentro di me quel giorno, che cominciava a sciogliersi. Era come se avessi trovato un alleato. Doveva essere veramente difficile per una ragazza vivace come Alison avere per padre mio cugino Duane.

 

CAPITOLO TERZO

 

Una volta privata dei pomelli e collocata nella camera da letto vuota del primo piano della casa della nonna, la scrivania mi parve solida e funzionale, una versione moderna di tutte quelle che avevo posseduto e usato. In sé, poi, la camera, raccolta, con i muri bianchi e i sobri pavimenti di legno di pino, era il luogo ideale in cui applicarsi ad uno studio letterario, perché le sue pareti vuote invitavano alla contemplazione e l'unica finestra che si affacciava sul granaio e sul sentiero che portava alla casa di Duane, rappresentava la necessaria fonte di distrazione. In un batter d'occhio allineai sul tavolo tutte le mie cose: la macchina da scrivere, la risma di carta, la prime pagine del manoscritto, lo schema di lavoro, il liquido bianco per cancellare gli errori di battitura, penne, matite e fermagli. Accanto alla sedia impilai ordinatamente i romanzi. Per un attimo percepii che lo spirito risiedeva nella fatica, nel duro lavoro, e tanto più quanto più era recondito ed estraneo. La mia sudata dissertazione sarebbe stata il trait-d'union con Alison Greening: il mio lavoro l'avrebbe richiamata in vita.

 

Ma quel giorno non scrissi neanche una parola. Mi sedetti alla scrivania e rimasi a guardare fuori dalla finestra: osservai la figlia di mio cugino, che, lanciando occhiate curiose verso la mia camera, attraversò a più riprese il prato e il sentiero, diretta, di volta in volta, alla rimessa, al granaio o alla cisterna. Poi seguii i movimenti di Duane che, verso la fine del pomeriggio, risalì la strada a bordo del suo gigantesco trattore e, dopo averlo ricoverato nel capannone, s'incamminò goffamente verso casa, grattandosi il didietro. Mi sentivo - presumo di essermi sentito - solo ed euforico, pronto per un grande evento e, al tempo stesso piatto e vuoto, come se non fossi quello che fingevo di essere, ma soltanto un attore in attesa di entrare nel proprio ruolo. Era una sensazione che provavo spesso.

Rimasi a guardare il cielo che incupiva sopra il granaio, mentre i contorni del viottolo si facevano sempre più sfumati e il tetto della casa di Duane e quello del granaio, che al primo imbrunire si erano stagliati con ancor maggiore chiarezza contro lo sfondo blu scuro, a poco a poco venivano assorbiti dall'oscurità. Nella casa di Duane, una dopo l'altra si illuminarono tutte le finestre del pian terreno, come se qualcuno avesse programmato l'impianto elettrico in modo tale che l'accensione di un lampadario provocasse, in rapida e automatica successione, quella di tutte le luci dell'abitazione. Pensai che forse Alison avrebbe fatto capolino sul sentiero, con la T-shirt che brillava sotto i raggi della luna, e il viso imbronciato attorniato dai capelli biondi e lisci che ondeggiavano seguendo il ritmo della sue robuste cosce. Dopo un po' mi addormentai. Rimasi assopito per meno di un'ora, ma quando riaprii gli occhi nella casa di mio cugino era rimasta accesa soltanto una luce e il tratto che separava le nostre due abitazioni sembrava buio e privo di sentieri come una giungla. In preda ai morsi della fame, scesi le scale a tentoni e andai in cucina. Era tutto terribilmente appiccicoso e freddo e sapeva di muffa. Quando aprii il frigorifero mi accorsi che Duane o la signora Sunderson avevano provveduto a riempirlo di quanto sarebbe bastato per la cena di quella sera e la colazione del mattino seguente: c'erano pane, uova, burro, patate, formaggio e due costolette d'agnello. Dopo aver fritto le costolette le divorai insieme ad alcune fette di pane imburrato. Ma un pasto senza vino non è un vero pasto per un uomo e, per consolarmi, mangiai come dessert un pezzetto di cheddar. Quindi misi i piatti nell'acquaio e, piuttosto satollo, feci ritorno in camera. Guardai subito verso la finestra e vidi che c'era ancora la luce accesa, anche se la stanza illuminata adesso era una delle ultime del pian terreno. Presumibilmente la camera da letto di Alison. Mentre formulavo questa considerazione, udii il ronzio di una moto che risaliva la strada. Il rumore si fece sempre più forte, fino a quando giunse quasi all'altezza della casa, poi, improvvisamente, cessò. La mia scrivania aveva un aspetto maligno, come il cuore nero e grasso di una ragnatela.

 

Naturalmente, la mia camera da letto era quella che un tempo era appartenuta a mia nonna. Anche se, per la verità, lei si era trasferita in quella stanza più piccola e più fredda del primo piano solo dopo la morte del nonno; per questo motivo aveva un letto nuovo, ed era proprio per via del letto nuovo che io l'avevo scelta. Mio nonno era morto quando io ero piccolo, perciò tutti i ricordi che ho di mia nonna sono di una vedova piena di rughe che, quando andava a dormire, saliva con circospezione la stretta rampa di scale. Come tutte le donne di una certa età, anche lei alternava, a distanza di due o tre anni, fasi di obesità a fasi di estrema magrezza. Alla fine si stabilizzò sul magro e morì così. Dati questi ricordi associati a quella angusta camera, era prevedibile che io quella notte sognassi mia nonna: la cosa che mi sorprese e che, anzi, mi scioccò fu invece la violenza emotiva del sogno. Mi trovavo nersalotto, che era arredato con i vecchi mobili e non con quella roba da ufficio comprata da Duane. Mia nonna era seduta sul sofà con lo schienale di legno e si stava guardando nervosamente le mani. — Perché sei tornato?

— Che cosa?

— Tu sei uno stupido.

— Non capisco.

— Non bastano tutti i morti che ci sono già stati?

Poi si alzò bruscamente, uscì sulla veranda e si sedette sulla vecchia altalena arrugginita. — Miles, sei un ingenuo. — Alzò i pugni serrati verso di me e contorse il viso come non l'avevo mai vista fare. — Stupido, stupido, stupido! Stupido ingenuo!

Allora io mi sedetti accanto a lei e lei prese a picchiarmi sulla testa e sulle spalle. Io chinai il collo per ricevere le percosse e desiderai con tutto me stesso di morire.

Lei disse: — Tu hai messo in moto tutto questo e alla fine ti distruggerà.

Sentii la vita che mi abbandonava e lo scenario cambiò. Mi ritrovai sospeso in un fluido blu, molto lontano. La distanza era importante. Ero in un posto blu che si muoveva e io continuavo a piangere. Poi capii che quella era la morte. Da lontano mi giungeva l'eco di conversazioni e risate smorzate, come se quei suoni fossero attutiti da muri. Nel momento stesso in cui mi resi conto che non solo io, ma centinaia, migliaia di altri corpi stavano fluttuando in quell'orrore blu, udii il suono distinto di tre, singoli e cadenzati applausi, indicibilmente cinici. Era quello il suono della morte e non aveva dignità alcuna. Era la conclusione di uno spettacolo di infimo ordine.

Madido di sudore mi rotolai nel letto boccheggiando. Mi sembrava che quel sogno fosse durato ore, come se vi fossi stato catturato nel momento stesso in cui avevo chiuso gli occhi. Rimasi supino a respirare affannosamente, soffocato dal panico e dal peso della colpa. Ero considerato il responsabile di numerose morti: io avevo provocato quelle morti e tutti lo sapevano.

A poco a poco, vedendo la luce che iniziava a filtrare dalla finestra, ripresi a pensare con lucidità. Non avevo ucciso nessuno. Mia nonna era morta e io ero lì per lavorare. Calma, dissi ad alta voce. È stato solo un sogno. Cercai di produrre onde alfa e cominciai a fare respiri profondi e regolari. Ci volle molto tempo prima che il mio enorme senso di colpa si dissipasse.

Io sono sempre stato afflitto da grandi sensi di colpa. Anzi, si potrebbe dire che la mia vera vocazione è di esperto in sensi di colpa.

Per tre quarti d'ora cercai di riprender sonno, ma il mio sistema nervoso non me lo permise: mi sembrava di avere i nervi imbibiti di caffeina. Poco dopo le cinque, mi alzai. Attraverso la finestra della camera vidi l'alba che spuntava. La rugiada copriva come un velo d'argento il vecchio grande trogolo di ferro nero, che si trovava nel campo vicino alla casa dove mio nonno teneva i maiali. Adesso il campo veniva utilizzato per farci pascolare un cavallo e le mucche di un vicino. Dietro le mucche malinconiche, la grande giumenta nocciola stava ancora dormendo, in piedi, con il lungo collo ciondoloni. Sullo sfondo, si stagliava una collina di arenaria, butterata di grotte vuote e ricoperte di un folto intrico di piccoli alberi, di erbe e di rampicanti. Non era molto diversa dalla collina che ero abituato a vedere da bambino. Una nebbiolina leggera e grigia, più simile ad una foschia persistente che alla nebbia vera e propria, copriva le parti più basse del campo. Mentre me ne stavo accanto alla finestra, intento a gustare la pace che emanava da quel paesaggio verde merlato di nebbia, accaddero due cose che per un istante, e quasi senza che io me ne rendessi conto, mi fecero restare senza fiato. Avevo lasciato vagare lo sguardo sui campi oltre la strada: i colori del granoturco di Duane erano bellissimi così smorzati dalla luce grigia e il bosco sembrava ancora più scuro che in pieno sole. Ad un tratto vidi con lampante chiarezza una figura emergere, abbracciata dalla nebbia, e indugiare un momento al limite fra i campi e il bosco. Ricordai che una volta mia madre mi aveva detto di aver visto un lupo uscire dall'intrico degli alberi... di aver visto un lupo soffermarsi forse proprio in quel punto, e di fissare con occhi famelici la fattoria e il granaio. Si trattava, ne ero pressoché sicuro, della stessa creatura che avevo visto il pomeriggio precedente. Come il lupo, era ferma immobile e guardava in direzione della casa. Mi si ghiacciò il sangue nelle vene. Un cacciatore, pensai. No, non era un cacciatore. Non sapevo perché, ma non era un cacciatore. In quello stesso istante udii il ronzio di una motocicletta.

Abbassai gli occhi sulla strada e quando li sollevai di nuovo sulla prima fila di alberi, la figura era sparita. Dopo alcuni secondi, la motocicletta entrò nel mio campo visivo.

Lei teneva le braccia strette intorno al suo busto e indossava un poncho bianco per difendersi dall'aria fredda della mattina. Lui era completamente vestito di nero, dal giubbotto agli stivali. Spense il motore appena uscì dalla mia visuale, e allora io mi infilai frettolosamente l'accappatoio e mi precipitai giù dalle scale. Senza far rumore, mi avvicinai alla porta della veranda. Non si stavano baciando o abbracciando, come mi sarei aspettato, ma se ne stavano semplicemente in piedi, in mezzo alla strada, l'uno di fronte all'altra, guardando in direzioni diverse. Poi lei gli appoggiò una mano sulla spalla e io vidi il suo viso magro da cui si sprigionava un intenso entusiasmo: un viso selvaggio. Aveva i capelli corvini, lunghi e pettinati alti, come i cantanti rock degli anni cinquanta. Quando lei tolse la mano, lui annuì brevemente. Quel gesto sembrava esprimere al tempo stesso dipendenza e comando. Lei gli accarezzò il viso con le dita e si avviò lungo il viottolo. Come me, lui la seguì per un po' con lo sguardo, poi balzò di nuovo in sella alla moto, l'accese, descrisse un cerchio lampo alla Evel Knievel e, accelerando, si allontanò.

Io rientrai e mi accorsi che l'interno della casa era freddo e umido come la veranda. Ero scalzo e avevo i piedi gelati. Decisi di andare in cucina a mettere sulla stufa una pentola d'acqua. Rovistando nella dispensa trovai una caraffa piena di bustine di caffè solubile. Poi ritornai suoi miei passi, sulle assi bagnate della veranda. Il sole stava facendo capolino, enorme e violentemente rosso. Dopo un minuto o due Alison riapparve: camminava a lunghi passi, senza fare rumore. Attraversò il prato su cui si affacciava il retro della sua casa e si diresse verso l'ultima finestra del pian terreno, illuminata dalla luce di un'abat-jour. Quando la raggiunse alzò il vetro, appoggiò le palme sul davanzale e si issò all'interno della sua camera da letto.

 

Dopo aver trangugiato due tazze di caffè amaro, stando in piedi sul freddo pavimento della cucina; dopo aver gustato due uova fritte nel burro e una fetta di pane tostato seduto al vecchio tavolo di legno rotondo, mentre fuori i primi raggi di sole cominciavano a dissolvere la nebbia; dopo aver apprezzato il tepore che si era creato nella stanza cucinando; dopo aver aggiunto le stoviglie sporche a quelle della sera precedente nell'acquaio; dopo essermi spogliato in bagno ed aver scrutato con disgusto la mia pancia sempre più prominente; dopo aver studiato allo stesso modo la pelle del mio viso; dopo aver fatto la doccia nella vasca; dopo essermi rasato; dopo aver tirato fuori i vestiti puliti dalla valigia ed essermi messo addosso un paio di blue jeans, una camicia a scacchi e un paio di stivali; dopo aver fatto tutto questo, io ancora non mi sentivo pronto per iniziare a lavorare. Mi sedetti alla scrivania ed esaminai attentamente la punta delle mie matite; non riuscivo a togliermi dalla mente il sogno che avevo fatto quella notte. Benché il sole stesse rapidamente scaldando l'aria, la mia piccola stanza e tutta la casa sembravano pervase da un alito freddo, uno spirito gelido che io interpretavo come conseguenza dell'incubo.

Scesi al piano di sotto e presi la foto di Alison che era appesa al muro della sala. Ritornato in camera la sistemai sul mio tavolo, appoggiandola alla parete. Poi mi ricordai che doveva essercene un'altra, che una volta, come questa, era appesa in qualche stanza del pian terreno; in realtà, di ritratti di nipoti e pronipoti ne esistevano a dozzine, che, presumibilmente, dopo la morte della nonna, Duane aveva impacchettato e messo via insieme ai mobili, ma a me interessava soltanto quello. Era una foto del 1955 che ritraeva Alison e il sottoscritto insieme; ce l'aveva scattata il padre di Duane all'inizio dell'estate. Eravamo in piedi, davanti ad un grande noce: ci tenevamo per mano e guardavamo davanti a noi, verso l'ignoto futuro che ci attendeva. Ripensando a quella foto, rabbrividii.

Guardai l'orologio: erano solo le sei e mezzo. Mi resi conto che, anche se avessi cercato di concentrarmi sul mio libro, a quell'ora e in quelle condizioni di spirito non sarei riuscito a cavare un ragno da un buco; tanto più che normalmente, non iniziavo mai a scrivere prima di pranzo. Tuttavia, mi sentivo inquieto e poiché la macchina da scrivere, le matite e la scrivania stessa sembravano fissarmi con aria di rimprovero, fui costretto ad uscire dalla stanza.

Sceso dabbasso, mi preparai la terza tazza di caffè e, mentre lo sorseggiavo appollaiato sullo scomodo divano acquistato da Duane, pensai a D.H. Lawrence. Poi riflettei sulla gita notturna di Alison Updhal. Aveva tutta la mia approvazione, anche se pensavo che avrebbe dovuto scegliersi compagnie migliori. Ma almeno la figlia avrebbe fatto più esperienza del padre: non ci sarebbe stata nessuna Casa dei Sogni nella sua vita. Poi D.H. Lawrence riconquistò tutta la mia attenzione. Avevo già scritto gran parte del nucleo centrale del libro, e avevo tenuto per ultime la parte iniziale e quella conclusiva; ma, mentre avevo già le idee chiare su come articolare gli ultimi capitoli, per il primo non sapevo neppure da che parte cominciare. Avevo bisogno di una bella frase d'esordio, preferibilmente una di quelle con molte e forbite subordinate, dalla quale avrebbero autorevolmente preso il via quaranta eloquenti pagine introduttive.

Ritornai in cucina, che, ancora una volta, trovai fredda e umida. Misi la tazzina nell'acquaio, sopra la pila dei piatti che vi avevo già accumulato, dopodiché, facendo il giro del tavolo mi allungai a prendere l'elenco telefonico che si trovava sullo scaffale sotto il vecchio telefono a muro. Era un volume sottile, poco più spesso di una prima raccolta di poesie, e recava sulla copertina l'immagine pastorale di due bambini intenti a pescare su un molo, circondati dall'acqua blu e apparentemente gelida di un fiume. Benché avessero i piedi nudi, indossavano un maglione di lana. Sulla riva opposta del corso d'acqua si concentrava una fila ininterrotta di alberi, che mi fece pensare al sopracciglio sul viso di un gangster. Dopo averla osservata per qualche secondo, quell'immagine mi parve più sinistra che bucolica: era minacciosa. Anch'io ero a piedi nudi sulle assi fredde; anch'io ero stato sospeso su un'indifferente massa d'acqua blu. Nel disegno, il sole stava morendo. Piegai la copertina all'indietro e andai rapidamente alla lettera che mi interessava.

Mentre il telefono squillava, io indugiai a guardare fuori dall'unica finestra della cucina, che si affacciava sul prato e sulla strada. Attraverso i tronchi dei noci, vidi Duane, già al volante del suo grande trattore, che faceva maestosamente la spola da un'estremità all'altra dell'ultimo campo, quello che confinava con il bosco. Giunto alla fine del percorso, fece virare la grossa macchina con la stessa agilità con cui avrebbe fatto inversione a U in sella ad una bicicletta. Al terzo squillo zia Rinn alzò il ricevitore, ma non disse nulla; così, dopo alcuni istanti fui io a parlare per primo.

«Rinn? Sei tu zia Rinn?»

«Naturale.»

«Sono Miles, zia Rinn. Miles Teagarden.»

«Lo so, Miles. Ricordati di parlare forte. Io non uso mai questa terribile invenzione.»

«Duane mi ha detto di averti avvisata del mio arrivo.»

«Che cosa?»

«Duane mi ha detto... Ascolta zia Rinn, posso venire a trovarti questa mattina? Non riesco a lavorare e non riesco a dormire.»

«No» disse, come se lo sapesse già.

«Posso venire o è troppo presto?»

«Lo sai com'è la gente di campagna, Miles. Anche i vecchi si alzano presto la mattina per lavorare.»

Mi misi addosso una giacca e, attraversando il prato fradicio di rugiada, raggiunsi la mia Volkswagen. Sul parabrezza la condensa si dissolse in mille rivoli. Quando mi immisi sulla strada dove la regina guerriera aveva preso commiato, in quello strano modo privo di emozione, dal ragazzo moro, che non poteva essere altri che Zack, udii la voce di mia nonna che ripeteva, con voce nitida, una delle frasi che mi aveva rivolto in sogno. Perché sei ritornato? Era come se fosse seduta sul sedile accanto a me. Mi sembrava perfino di sentire il suo caratteristico odore di legna bruciata. Mi fermai sul ciglio della strada e mi passai le mani sul viso. Non avrei saputo che cosa risponderle.

 

Gli alberi che crescevano a circa metà della stradina sconnessa che porta alla casa di Rinn, là dove la pianura finisce e, a poco a poco, si fa collina, erano diventati molto più alti e più folti. La pallida luce del sole riverberava sui tronchi corrugati e sulla terra spugnosa coperta di vegetazione. Un po' più oltre, alcuni scampoli di luce illuminavano un muro del pollaio di Rinn, il cui tetto, invece, era già completamente inondato dal sole. Era una grande costruzione a forma di granaio, stretta e alta come una casa di due piani e dipinta di rosso. Minuscole finestre, simili a quelle dei fumetti, punteggiavano arbitrariamente la parete che si palesava alla mia vista: sembravano i tasselli mancanti di un enorme puzzle. Più su, in cima alla salita, si trovava la casa della zia, che un tempo era bianca e che adesso, invece, aveva un disperato bisogno di una mano di tinta. La prima impressione che si ricavava nell'osservare quella struttura a tre stanze era che fosse avvolta da una gigantesca ragnatela. Gli alberi avevano invaso la minuscola area del prato e i loro spessi rami si intrecciavano sopra il tetto. Mentre scendevo dalla macchina, Rinn apparve nella piccola veranda, aprì la porta a zanzariera e uscì. Indossava un antiquato abito blu di tessuto stampato, stivaletti di gomma alla caviglia e una vecchia giacca militare color cachi, che, a prima vista, sembrava avere almeno un centinaio di tasche.

«Benvenuto, Miles», mi disse con il suo classico accento norvegese. Il suo viso era più rugoso che mai, ma pieno di luce. Uno degli occhi era velato da una patina lattiginosa. «L'ultima volta che sei venuto qui non eri che un ragazzino e adesso sei un uomo. E un gran bel pezzo d'uomo, anche. Sembri un norvegese.»

«Non potrebbe che essere così, con una come te in famiglia.» Mi chinai a baciarla, ma lei mi porse una mano e io gliela strinsi. Indossava un paio di mezzi guanti fatti ai ferri e a toccarla la sua mano sembrava un insieme di ossa slegate tenute insieme da un pezzo di stoffa. «Hai un aspetto splendido» le dissi.

«Oh, Gesù. Ho il caffè sulla stufa, se ti piace il caffè.»

La seguii all'interno della sua minuscola cucina surriscaldata, dove lei aggiunse nuova legna nella stufa fino a quando la caffettiera di ferro borbottò. Il caffè uscì sotto forma di un sottile rivolo nero. «Immagino che non ti alzi sempre così presto al mattino» mi disse. «C'è qualcosa che ti preoccupa?»

«Veramente non so. Ho un po' di problemi ad ingranare con il mio lavoro.»

«Però non è il lavoro, vero Miles?»

«Non lo so.»

«Gli uomini dovrebbero essere tutti dei lavoratori. Il mio lo era.» Mi studiò al di sopra della tazza con l'occhio buono, che era quasi pallido come quello di Alison ma mille volte più acuto. «Duane è un bravo lavoratore.»

«Che cosa sai di sua figlia?» Mi interessava conoscere il suo parere.

«Le hanno messo il nome sbagliato. Duane avrebbe dovuto chiamarla Jessie, come mia sorella. Oppure avrebbe dovuto darle il nome di sua madre. Quella ragazza ha bisogno di qualcuno che la guidi. È sempre molto agitata.» Rinn tolse lentamente il canovaccio che copriva un piatto colmo di dischi piatti e rotondi fatti di una pasta simile a quella del pane e che io conoscevo bene. «Ma è molto più gentile di quanto non voglia farti credere.»

«Ma fai ancora i lefsa?» le domandai ridendo soddisfatto. Erano una delle specialità della valle.

«Certo che li faccio ancora. Sono ancora capace di usare il mattarello. Li faccio tutte le volte che riesco a vederci abbastanza bene.»

Ne presi uno, lo spalmai abbondantemente di burro e lo arrotolai a mo' di sigaro. Era ancora come mangiare il pane degli angeli.

«Sarai solo quest'estate?»

«Sono solo anche adesso.»

«È meglio essere soli. Meglio per te.» Intendeva proprio me, Miles Teagarden, non l'umanità in generale.

«Be', devo ammettere di non aver avuto molta fortuna nelle mie relazioni sentimentali.»

«Fortuna» sbuffò Rinn e si curvò ancor di più sopra il tavolo. «Non chiamare disgrazia, Miles.»

«Disgrazia?» ero sinceramente stupito. «Non mi è poi andata così male.»

«Miles, stanno accadendo delle gran brutte cose qui adesso. Qui nella valle. Hai sentito le notizie. Tu non ti immischiare. Stattene tranquillo per conto tuo a fare il tuo lavoro. Tu sei un intruso, Miles, e alla gente non va di averti vicino. La gente sa di te. Tu hai avuto guai in passato e adesso devi tenertene alla larga. Jessie ha paura che tu ne venga coinvolto.»

«Uh?» Era con discorsi del genere che quand'ero piccolo Rinn mi faceva morire di paura.

«Tu sei innocente» mi disse (le stesse parole che aveva pronunciato mia nonna nel sogno). «Ma tu sai di che cosa sto parlando.»

«Non preoccuparti. Per quanto siano provocanti, le ragazzine non mi tentano. Ma non capisco che cosa intendi per innocente.»

«Intendo dire che tu ti aspetti troppo» disse. «Forse ti sto confondendo. Vuoi mangiare ancora o ti va di aiutarmi a raccogliere le uova?»

Mi vennero in mente le sue considerazioni sul lavoro e mi alzai in piedi. La seguii fuori, fra gli alberi e poi giù per la discesa fino al pollaio. «Fa piano quando entri» mi ammonì. «Le galline si spaventano facilmente e se cominciano a starnazzare rischiano di soffocarsi a vicenda.»

Con molta cautela aprì la porta della grande costruzione rossa. Una puzza terribile mi ferì le narici: era un odore che sapeva di cenere, di sterco e di sangue. A poco a poco i miei occhi si abituarono all'oscurità e riuscii a discernere le galline accovacciate sui loro nidi in tante file parallele, come libri su uno scaffale. La scena che si presentava ai miei occhi era una parodia delle mie classi di Long Island. Entrammo. Alcune galline strillarono. Guardai per terra e vidi intorno a me un cumulo di sporcizia, segatura, penne e gusci d'uovo. L'aria era calda e pregna di un odore acre e potente, che non lasciava tregua.

«Guarda come faccio io» mi disse Rinn. «Con questa luce non ci vedo, ma so dove si trova ciascuna di loro.» Si avvicinò al primo nido e insinuò una mano fra l'uccello e la paglia senza minimamente spaventare la gallina, che sbatté le palpebre e poi continuò a guardare stralunata dai due lati della testa. La mano di Rinn riapparve con due uova e, dopo un secondo, con una terza. Sulla superficie calda dei gusci, resa appiccicosa da una sostanza grigiastra erano incollate alcune piume. «Tu comincia da là in fondo, Miles. C'è un cestino per terra», mi disse puntando l'indice.

Rinn completò il suo giro ben prima che io riuscissi a convincere sei galline riluttanti a concedermi due uova a testa. La spessa fasciatura che mi aveva fatto Duane mi impacciava enormemente. Salii su per una scala, dove l'aria era, se possibile, ancor più calda e puzzolente e rubai altre uova dal ventre caldo di galline sempre più agitate; una delle ultime mi beccò la mano: fu come essere trafitto dalla punta di un cucchiaio.

Quando, finalmente, terminammo la delicata operazione e uscimmo di nuovo all'aria aperta, io mi appoggiai ad un albero e trassi alcuni profondi respiri purificatori. Rinn, che era accanto a me, mi disse: «Grazie per l'aiuto. Forse, anche tu un giorno diventerai un lavoratore.»

Mi voltai a guardare quella minuta figura, curva come un uncino, che quasi scompariva dentro quegli strani vestiti. «Ma prima, quando hai nominato Jessie, volevi dire che hai parlato con lei? Con mia nonna?»

Lei sorrise strizzando gli occhi e assumendo una buffa espressione da cinesina. «Intendevo dire che lei mi parla. Non è questo quello che ho detto?» Ma prima che potessi risponderle, aggiunse: «Lei ti guarda, Miles. Jessie ti ha sempre voluto molto bene e vuole proteggerti.»

«Ne sono lusingato. Forse...» stavo per dire, forse è per questo che questa notte l'ho sognata, ma ero restio a raccontarle il mio sogno. Ero sicuro che ne avrebbe tirato fuori chissà che cosa.

«Sì?» zia Rinn aveva lo sguardo vigile, come se fosse sintonizzata su una frequenza che io non riuscivo a captare. «Prego? Hai detto qualcosa? A volte non sento molto bene.»

«Perché pensavi che io mi immischiassi con Alison Updhal? È un'ipotesi un po' azzardata, anche per uno come me, non ti pare?»

Il suo viso si contrasse, come se fosse stato improvvisamente stretto da una morsa, e si incupì. «Io intendevo Alison Greening. Tua cugina, Miles. Tua cugina Alison.»

«Ma...» Stavo per dire Ma io la amo, ma lo shock mi fece morire la voce in gola.

«Scusami. Non ci sento più.» Detto questo si allontanò. Ma fatti alcuni passi si voltò a guardarmi. Sembrava arrabbiata e impaziente, anche se forse, dietro quella ragnatela di rughe, era solo stanca. «Sei sempre il benvenuto qui, Miles.» Quindi, con i due cesti pieni di uova (il suo e il mio) si avviò su per la salita che portava alla sua casa nascosta dagli alberi. Fu solo quando avevo già superato la chiesa che mi ricordai che mi ero ripromesso di comprare da lei una dozzina di uova.

 

Parcheggiai l'auto sul viale ghiaioso e, passando attraverso la veranda entrai in casa e salii al piano di sopra. La casa era ancora fredda e umida, nonostante adesso ci fossero oltre ventun gradi. Mi sedetti alla scrivania e cercai di pensare. Scorsi rapidamente le pagine di The White Peacock; ero troppo nervoso per scrivere. Era bastato che zia Rinn pronunciasse il suo nome per farmi rabbrividire. Io lo avevo usato come arma contro Duane e Rinn aveva usato lo stesso trucchetto con me.

All'improvviso sentii un rumore provenire dal piano di sotto: una porta che sbatteva? Un libro che era caduto? Seguì un rapido scalpiccio. Era Alison Updhal, non avevo dubbi: era venuta a civettare con la scusa di espormi le folli teorie del suo ragazzo. Rinn aveva ragione: Alison era una persona molto più gradevole di quanto non volesse far credere agli altri, ma in quel momento non riuscivo a sopportare l'idea che qualcuno usurpasse il mio territorio.

Scagliai via la sedia e scesi a precipizio giù per le scale. Mi fiondai nel salotto. Non c'era nessuno. Poi udii alcuni rumori provenire dalla cucina e immaginai che la giovane guerriera stesse rovistando rumorosamente nella mia dispensa. «Forza, fuori di lì» urlai. «La prossima volta che hai intenzione di venirmi a trovare, mi avvisi prima e forse io ti invito. Io lassù sto cercando di lavorare!»

Il baccano cessò. «Esci da quella cucina immediatamente!» urlai, dirigendomi con passo marziale verso la porta.

Mi trovai davanti una donna pallida e confusa che si asciugava le mani con un asciugamano. Quel movimento le faceva tremare le braccia grasse e flaccide.

«Oh, Dio mio!» esclamai d'impulso. «E lei chi è?»

Lei aprì la bocca per parlare.

«Oh, Dio mi scusi. Pensavo che fosse qualcun altro.»

«Sono...»

«Sono davvero mortificato. Mi scusi tanto. La prego, si accomodi.»

«Io sono la signora Sunderson. Pensavo che fosse tutto a posto. Ero venuta per fare le pulizie, la porta era aperta... Tu sei... Tu sei il figlio di Eve?» Fece alcuni passi indietro e, per poco, non cadde dallo scalino che portava in cucina.

«La prego, si sieda. Le assicuro che mi dispiace immensamente. Non intendevo...» Continuava ad indietreggiare, stringendo l'asciugamano fra le mani come se fosse uno scudo. Aveva gli occhi stralunati.

«Non volevi qualcuno che ti facesse le pulizie? La settimana scorsa Duane mi ha detto di venire oggi. Io non sapevo se accettare, intendo dire visto che noi, visto questo terribile... ma Red ha detto che facevo bene, che mi sarei distratta, così ha detto.»

«Sì, sì, io voglio che lei venga. La prego di perdonarmi. Pensavo che fosse qualcun altro. La prego, si sieda un attimo.»

Si abbandonò pesantemente su una delle sedie della cucina. Aveva la faccia tutta coperta di chiazze rosse.

«Io sono molto contento che lei venga qui» dissi con voce flebile. «Lei ha capito quello che desidero che lei faccia?»

Lei annuì, fissandomi con gli occhi sbarrati e untuosi dietro le spesse lenti degli occhiali.

«Vorrei che venisse qui al mattino presto per prepararmi la colazione, lavare i piatti e pulire la casa. Poi mi prepara il pranzo per l'una. È così che vi eravate accordati lei e Duane? Ah, dimenticavo. Non si preoccupi della stanza in cui lavoro. Non voglio essere disturbato.»

«Quale stanza? »

«Quella lì di sopra» dissi indicando la camera con il dito. «Quando lei arriverà al mattino, io probabilmente sarò già in piedi e starò lavorando. Per cui, quando la colazione è pronta basterà che lei mi dia una voce e io verrò giù. Ha mai fatto questo lavoro prima d'ora?»

Per un attimo sul suo viso grassoccio si dipinse un'espressione risentita. «Ho badato a casa mia per più di quarant'anni, con un marito e un figlio.»

«Certo, come ho fatto a non pensarci. Mi scusi.»

«Duane le ha detto della macchina? Che non posso guidare? Per cui alla spesa dovrà provvedere lei.»

«Sì, sì d'accordo. Andrò fuori questo pomeriggio. Tanto, avevo comunque intenzione di fare un giro ad Arden.»

Continuava a fissarmi senza parlare. Io mi rendevo conto che la stavo trattando come una domestica, ma non riuscivo a farci niente. L'imbarazzo e una falsa dignità mi bloccavano. Se fosse stata la regina guerriera, mi sarei scusato.

«Con Duane avevo stabilito cinque dollari alla settimana.»

«Non sia sciocca, lei ne merita almeno sette. Anzi, potrei pagarle la prima settimana in anticipo.» Misi sette banconote da un dollaro sul tavolo, contandole davanti a lei. Lei guardò il mucchietto di soldi con rancore.

«Ho detto cinque.»

«Accetti due dollari in più come indennità di fatica. Questa mattina non deve preoccuparsi della colazione, perché mi sono alzato presto e me la sono preparato da solo, però mi piacerebbe mangiare intorno all'una. Dopo aver lavato i piatti è libera di andare, se la casa le sembra a posto. D'accordo? Mi dispiace molto di averla aggredita in quel modo prima. Si è trattato di uno scambio di persona.»

«Uh. Ma io ho detto cinque.»

«Lo faccia per me, signora Sunderson, per la tranquillità della mia coscienza. Prenda anche gli altri due dollari, altrimenti mi sembrerebbe di sfruttarla.»

«Ho visto che manca una fotografia dal salotto.»

«Sì, l'ho portata di sopra. Bene, se lei vuol ritornare al suo lavoro, io ritorno al mio.»

 

Dalla Deposizione di Tuta Sunderson:

 

18 luglio:

La gente che si comporta così non è a posto con il cervello, ve lo dico io. Sembrava un pazzo e per convincermi a restare mi ha offerto due dollari in più. Be', qui dalle nostre parti non ci si comporta così, vero? Red mi disse di non ritornarci più, ma io ho voluto continuare ad andare ed è per questo che so tante cose su di lui.

Vorrei che Jerome fosse vivo, così gli darebbe lui la lezione che si merita. Jerome non gli avrebbe permesso di parlare a quel modo e nemmeno di comportarsi come si è comportato.

Comunque, chiedetevi soltanto questo: Chi stava aspettando? E chi andò a trovarlo?

 

Mi sedetti in silenzio alla scrivania, incapace di partorire la benché minima riflessione degna di tal nome su D.H. Lawrence. Mi resi conto che dei suoi romanzi me ne piacevano al massimo un paio e a questa sconfortante presa di coscienza, seguì quella non meno avvilente, che se avessi pubblicato un libro su di lui, poi sarei stato costretto a parlare di lui per il resto della mia vita. In ogni caso, non riuscivo a concentrarmi, pensando che, al piano di sotto, quella donna colpevolizzante si stava muovendo fra i mobili di Duane. Appoggiai per un attimo la testa sulla scrivania ed ebbi la netta percezione che la fotografia di Alison emanasse una luce verso di me. Cominciarono a tremarmi le mani, una delle vene del collo prese a pulsarmi furiosamente e io mi immersi fino in fondo in quel calore dolce e protettivo. Quando mi alzai e scesi di nuovo al pian terreno, scoprii che mi tremavano le gambe.

Nel vedermi passare senza dire una parola, Tuta Sunderson, ginocchioni davanti ad un secchio d'acqua, mi sbirciò con la coda dell'occhio: aveva, comprensibilmente, la faccia di chi si aspetta di ricevere da un momento all'altro un calcio nel fondoschiena. «Oh, è arrivata una lettera per lei. Mi sono dimenticata di dirglielo prima» mi comunicò, indicando, con un debole gesto, un mobile a vetri. Passando, afferrai la missiva e uscii.

Al centro della busta color crema, scritto con tratto armonioso, spiccava il mio nome. Dopo essermi seduto sul sedile rovente della VW, strappai la busta, estrassi il foglio e lo spiegai. Lo voltai dall'altra parte. Confuso lo girai ancora: era bianco. Gemetti. Agguantai la busta, che era caduta, e vidi che non recava il mittente e che era stata imbucata ad Arden la sera precedente.

Ingranai la prima e uscii come un fulmine dal vialetto d'accesso, senza nemmeno guardare se stesse sopraggiungendo qualche altro veicolo. Sentendo stridere le gomme, Duane, che si trovava all'estremità del campo voltò la testa. Accelerai come se fossi seguito da un assassino, il foglio bianco e la busta erano sul sedile accanto al mio. Dopo un po' il motore cominciò a scoppiettare e le luci del cruscotto lampeggiarono, come se la mano dello Spirito fosse improvvisamente entrata nell'abitacolo e le avesse toccate; d'istinto sollevai lo sguardo sui campi e sul bosco, ma non vidi anima viva. Era stato uno scherzo, uno scherzo ignobile. Ma da parte di chi? Un mio vecchio nemico di Arden? Non pensavo di averne ancora; ma, se era per questo, non mi ero nemmeno aspettato che la moglie di Andy brandisse la sua ostilità nei miei confronti come un pugnale sguainato. Se era un segno, di che cosa? Di qualche messaggio futuro? Afferrai di nuovo la lettera e la tenni stretta sul volante con entrambe la mani. «Dannazione», borbottai e mentre la gettavo di nuovo sul sedile, premetti con rabbia l'acceleratore.

Fu a partire da quel momento che cominciò ad andare tutto storto. Il brutto impatto con Tuta Sunderson, quella lettera anonima che mi aveva scosso i nervi: forse mi sarei comportato in modo più razionale se non avessi avuto alle spalle la brutta esperienza della tavola calda di Plainview. Eppure sono convinto che io sapessi già molto prima che diventasse pensiero cosciente, quello che sarei andato a fare ad Arden. Era la mia vecchia risposta allo stress. E avevo la sensazione di aver riconosciuto la grafia sulla busta.

 

Accelerando, divorai la strada ripida e piena di curve che conduceva ad Arden. Il Nome del Buon Pane è Bunny; Mungitrici Meccaniche Surge; Questa è la Terra di Holsum; Mangimi Nutrea; superstrada 93; Granoturco Dekalb (caratteri arancioni su ali verdi): uno dopo l'altro, i cartelloni pubblicitari e i segnali stradali schizzavano fuori dal mio campo visivo. Sulla cresta della lunga collina, là dove la strada si apre su un panorama che ricorda quello dei quadri italiani - un'infinita spianata verde punteggiata di costruzioni bianche e di folti gruppi di alberi - un cartello, con sopra dipinto un termometro e un indicatore, annunciava che i cittadini di Arden si proponevano di portare il Fondo della Comunità a 4.500 dollari. Accesi la radio e udii la voce monotona e falsa di Michael Moose "... le indagini sulla terribile tragedia non ...". Cambiai stazione e mi lasciai aggredire dalla musica rock a tutto volume, perché la odiavo.

Superata una zona di case di legno e l'R-D-N Motel, imboccai la Main Street che, oltrepassata la scuola, portava ai piedi dell'ultima collina, nella conca dove sorge Arden. I piccioni volavano in circolo sopra la roccaforte di mattoni che ospitava il palazzo di giustizia e il municipio e, nella strana quiete del momento, quando, dopo aver parcheggiato la macchina, spensi il motore, udii il battito smorzato e regolare delle loro ali: quel rumore riempiva e agitava l'aria come il rullo di un tamburo. Quando scesi dalla macchina, vidi che gli uccelli erano volati via e che adesso facevano bella mostra di sé sui cornicioni delle case lungo la Main Street. Ad eccezione di un vecchio signore che se ne stava seduto sui gradini del Freebo's Bar, erano le uniche creature viventi che si vedevano in giro. Era come se qualche apparizione maligna avesse fatto rintanare tutti gli abitanti di Arden nelle proprie case.

Entrai nel negozio davanti al quale avevo parcheggiato la VW e feci provviste per l'intera settimana; incrociai due donne, anche loro impegnate a fare la spesa, che mi fissarono in modo strano, evitando di guardarmi direttamente negli occhi. L'atmosfera era di manifesta ostilità, quasi teatrale, con le due donne che mi seguivano con lo sguardo, poi abbassavano repentinamente la testa e, dopo un po', riprendevano a lanciarmi occhiate furtive. Chi sei e che cosa fai qui? Era quella la domanda muta che leggevo nei loro occhi. Diedi alla cassiera i soldi contati, uscii e mi affrettai a mettere le sporte nella macchina. Dovevo comprare una bottiglia di whisky.

Più giù, lungo la strada, appena dopo l'angolo dell'Annex Hotel con l'Angler's Bar, riconobbi la figura curva del Pastore Bertilsson che, trascinando i piedi, stava arrancando proprio nella mia direzione, al braccio della moglie arcigna. Di tutti i pastori che avevo conosciuto in vita mia, lui era sicuramente quello che detestavo di più. Non mi aveva ancora visto. Mi guardai intorno in preda al panico. Sul lato opposto della strada c'era un fabbricato di due piani su cui spiccava la scritta Zumgo. Era un nome che avevo già sentito: doveva essere il posto in cui Duane mi aveva detto che lavorava Paul Kant. Voltai la schiena ai Bertilsson e attraversai di corsa la strada.

A differenza della tavola calda di Plainview, Zumgo aveva resistito a qualsiasi tentativo di rinnovamento e la mia prima reazione, quando entrai, fu quella di lasciar vagare il mio sguardo compiaciuto sull'arredo antiquato del negozio: i pavimenti erano a listelli di legno, resi lucidi dall'usura e, in alcuni punti, perfino scheggiati; anche le casse erano di legno e il resto veniva spedito giù, racchiuso in cilindretti metallici, attraverso alcuni fili che partivano da un ufficio sospeso sotto il soffitto. Fu solo in un secondo tempo che mi accorsi dello stato dimesso e malconcio del posto: la maggior parte dei banchi ospitava solo un esiguo numero di prodotti e le commesse, che anche qui mi fissavano con sospetto, erano vecchie, brutte e trasandate, con orribili chiazze di fard sui pomelli grinzosi. Alcune donne molto grasse pescavano a casaccio in un mucchio di biancheria intima ammassata su un bancone. Non riuscivo ad immaginare che Paul Kant potesse lavorare in un posto come quello. La donna a cui mi rivolsi sembrava essere del mio stesso parere. Sorrise, scoprendo i denti finti e mi disse: «Paul? Lei è un amico di Paul?»

«Le ho chiesto dove lavora. Vorrei vederlo.»

«Non è al lavoro. Lei è un suo amico?»

«Intende dire che non lavora qui?»

«Sì, quando c'è, lavora qui. Oggi, però, è a casa malato. O almeno questo è quello che ha detto alla signorina Nord. Ha detto che oggi non poteva venire. È strano, secondo me. Lei è un suo amico?»

«Sì, per lo meno lo ero una volta.»

Per qualche misteriosa ragione, la mia risposta trasformò la sua famelica curiosità in allegria. Mi concesse una rapida occhiata alle sue gengive coperte di plastica e chiamò una sua collega che stava dietro il bancone. «È un amico di Paul. Dice che non sa dov'è.» Anche l'altra donna si unì alla sua risata. «Un amico di Paul?»

«Cristo» imprecai sottovoce e me ne andai. Fatti alcuni passi, tornai indietro per chiedere: «Sapete se domani lo potrò trovare?» Ma la sola risposta che ottenni furono sguardi pieni di malizia. Mi ritornò alla mente il consiglio che mi aveva dato zia Rinn. Aveva ragione: c'erano persone che non accettavano di buon grado la presenza di un forestiero.

Sconcertato e furente, continuai a camminare avanti e indietro per il negozio fino a quando la prima vecchia commessa smise di ridere con la sua collega. Meditavo un proposito che in quel momento non volevo ammettere nemmeno a me stesso. Esaminai vestiti abominevoli; guardai tristi giocattoli, buste polverose e metri e metri di stoffe che sarebbero state più indicate sulla groppa di un cavallo. All'improvviso capii che stavo per fare ricorso alla mia vecchia risposta allo stress. Estrassi una banconota da cinque dollari e la piegai nel palmo della mano.

Una vocina dentro di me mi intimò disperatamente di uscire, ma ormai era troppo tardi.

Feci un giro al piano di sopra. Mi fermai davanti ad un espositore di libri girevole e lo feci ruotare. Ad un tratto, una delle copertine attirò la mia attenzione. L'autore del libro era Maccabee, illustre studioso e mio supervisore di letteratura all'università, e quella era la sua opera più famosa: Il sogno incantato. In realtà si trattava di un banalissimo saggio sui poeti del novecento, abbellito da una vistosa copertina che ritraeva un giovane capellone apparentemente intento ad inalare qualche droga, mentre, sullo sfondo, una cameriera nuda, e un filino meno affascinante di lui, si arrotolava i capelli con le dita. Incapace di controllare il mio impulso, afferrai il libro e lo feci scivolare nella tasca della giacca. Era stato Maccabee a suggerirmi di scrivere quel dannato saggio su Lawrence. Poi mi guardai attorno con circospezione (quando ormai ogni circospezione era inutile) e mi accertai che nessuno si fosse accorto del furto. Trassi un profondo sospiro di sollievo: il libro spuntava appena dalla tasca, ma, per maggior sicurezza, decisi di coprirlo con la patta. Dopodiché scesi al piano di sotto e, quando oltrepassai la cassa lasciai i cinque dollari sul banco.

Appena uscito dal negozio, poco ci mancò che finissi diretto fra le braccia di Bertilsson. Quell'ipocrita di un pastore camminava a testa bassa e sono sicuro che, prima di degnarsi di alzare i suoi occhi acquosi su di me, li avesse puntati sulla tasca in cui avevo nascosto il Maccabee. Con i capelli molto più radi e la faccia rosa da luna piena ancora più grassa di un tempo, mi apparve persino più ripugnante di come lo ricordassi. Sua moglie, che lo sovrastava di parecchi centimetri, se ne stava rigida come un baccalà e dall'espressione del suo viso si arguiva il suo timore che, da un momento all'altro, io commettessi qualche atto di disgustosa perversità.

Come, del resto, l'avevo già compiuto, ai suoi occhi. Quando Joan ed io ci eravamo sposati, Bertilsson si era preso il disturbo di inserire nella sua omelia alcune allusioni alle mie passate malefatte; alcuni giorni dopo, una sera in cui ero ubriaco, gli scrissi una lettera piena di insulti e la imbucai all'istante. Fra le altre cose, se ricordo bene, gli dicevo anche che non era degno di indossare l'abito che portava.

Forse fu il ricordo di quella frase che gli fece brillare gli occhi di malizia, quando mi salutò. «Ma guarda un po' chi si rivede! Il giovane Miles.»

«Avevamo sentito dire che eri tornato» disse sua moglie.

«Ti aspetto alle funzioni di domani.»

«Oh, sì, interessante. Be', io devo...»

«Mi è molto dispiaciuto sentire del tuo divorzio. La maggior parte dei matrimoni che ho celebrato sono durati a lungo. Ma poche delle coppie che ho avuto il privilegio di unire erano sofisticate come te e, come si chiamava? Judy? Poche scrivono biglietti di ringraziamento distinti come quello che mi inviaste voi due.»

«Non si chiamava Judy, ma Joan. E non abbiamo divorziato nel senso che intende lei. È stata uccisa.»

Sua moglie deglutì, ma Bertilsson, per quanto fosse viscido, non era un codardo. Continuò a guardarmi diritto negli occhi, con immutata malizia, che malcelava dietro quel suo modo di fare bigotto. «Oh, come mi dispiace. Sono davvero tanto tanto addolorato per te, Miles. Forse è una benedizione del cielo che tua nonna sia mancata prima di vedere come tu...» Scrollò le spalle.

«Come io che cosa?»

«Sembra che tu abbia una tragica propensione a trovarti sempre nei paraggi quando qualche giovane donna muore.»

«Ma se non ero neanche in città, quando hanno ucciso quella Olson», protestai. «E men che meno ero vicino a Joan quando è morta.»

Era come se avessi parlato ad un budda di bronzo. Lui sorrise. «Vedo che ti devo delle scuse. La mia osservazione non era intesa in questo senso, neanche lontanamente. Ma per la verità, visto che hai tirato in ballo l'argomento, la signora Bertilsson ed io siamo qui ad Arden proprio per una missione di carità, penso si possa dire, di carità del Signore, una missione legata ad un avvenimento di cui sembra che tu sia all'oscuro.»

Erano anni che, anche nella vita normale, parlava con la cadenza strascicata dei suoi barbosi sermoni, ma in genere si riusciva sempre a capire il contenuto dei suoi discorsi. «Guardi, mi dispiace, ma adesso devo proprio andare.»

«Siamo appena stati a trovare i genitori.» Continuava a sorridere, ma adesso il suo sorriso esprimeva una triste, ostentata gravità.

Dio mio, ma come poteva pensare che non ne avessi sentito parlare?

«Capisco.»

«Allora tu sai che cos'è successo? L'hai sentito.»

«Sì, certo. Adesso però devo proprio scappare.»

Per la prima volta parlò anche sua moglie. «Sì e faresti meglio a non fermarti fino a che torni da dove sei venuto, Miles. Noi non abbiamo una grande stima di te. Hai lasciato troppi brutti ricordi.» Il pastore continuava a guardarmi con quel suo sorrisetto ipocritamente umile stampato sulla faccia.

«Allora provi a scrivermi un'altra lettera anonima» le dissi bruscamente. Poi girai sui tacchi e me ne andai. Riattraversai la strada ed entrai al Freebo's Bar. Dopo alcuni drink, che sorseggiai ascoltando la voce di Michael Moose, spesso sovrastata da quelle degli avventori che chiacchieravano fra di loro, evitando palesemente di incrociare il mio sguardo, ne ordinai ancora un paio e cominciai ad attirare l'attenzione facendo a pezzi il libro di Maccabee sul banco: iniziai strappando una pagina alla volta, poi ne presi a dieci per volta e le staccai. Quando il barista venne da me a protestare, gli dissi: «Ho scritto io questo libro e adesso ho scoperto che è orribile.» Ridussi la copertina in mille frammenti, in modo che non potesse leggere il nome di Maccabee. «In questo bar uno non ha nemmeno il diritto di strappare il proprio libro?»

«Forse farebbe meglio ad andare, signor Teagarden» mi disse il barista. «Se vuole può ritornare domani.» Non mi ero reso conto che conosceva il mio nome.

«Posso strappare il mio libro, se voglio, no?»

«Senta, signor Teagarden. La notte scorsa è stata assassinata un'altra ragazza. Si chiamava Jenny Strand e la conoscevamo tutti qui in città. Deve capire, siamo tutti sconvolti.»

 

Andò così:

Jenny Strand, una ragazzina di tredici anni, era andata al cinema di Arden con quattro amiche, a vedere Amore e Guerra di Woody Allen. I suoi genitori glielo avevano proibito perché non volevano che imparasse dal grande schermo quello che c'era da sapere sul sesso e, ai loro occhi, quel film aveva quanto meno un titolo sospetto. Jenny era l'unica femmina della nidiata e suo padre riteneva che, mentre i suoi fratelli avrebbero potuto provvedere da soli, lei dovesse ricevere un'educazione sessuale più oculata, che preservasse la sua innocenza. Naturalmente, era convinto che questo compito spettasse alla madre e, a sua volta, la madre stava aspettando che il Pastore Bertilsson le suggerisse qualcosa.

Data la recente e tragica morte di Gwen Olson, i signori Strand avevano reagito con maggiore apprensione del solito quando, quella sera, Jenny aveva espresso il desiderio di andare a trovare la sua amica Jo Slavitt, dopo cena. Bada di essere a casa per le diecile aveva raccomandato suo padre. — Senz'altro, non dubitare. Tanto il film sarebbe finito ampiamente prima di quell'ora. Le loro obiezioni erano stupide e lei non permetteva che la stupidità altrui ponesse limiti alla sua libertà.

Non la preoccupava il fatto che lei e Gwen Olson si assomigliavano a tal punto che, in una città più grande, dove la gente non si conosceva tutta come ad Arden, qualcuno avrebbe potuto scambiarle per sorelle. Jenny non era mai riuscita a vedere questa rassomiglianza, anche se molti insegnanti gliel'avevano fatta notare. La cosa non la lusingava: Gwen Olson aveva un anno meno di lei, era una ragazza di campagna e frequentava un giro completamente diverso. L'aveva uccisa un vagabondo, lo dicevano tutti. Ogni tanto si vedevano in città alcuni barboni, o zingari che fossero: si fermavano qualche giorno e poi scomparivano. In un certo senso, bisognava dire che Gwen Olson se l'era proprio andata a cercare: solo una stupida poteva avventurarsi a passeggiare da sola di sera lungo il fiume, lontano dal centro abitato.

Jenny passò a prendere Jo e insieme percorsero i cinque isolati che separavano casa Slavitt dal cinema. Lì le aspettavano altre tre amiche. Acquistarono una confezione di dolciumi a testa e presero posto, come sempre, nell'ultima fila. — I miei sono convinti che si tratti di un film porno, sussurrò Jenny all'orecchio di Jo. Jo si coprì la bocca con la mano fingendo di essere scandalizzata. In realtà, il loro giudizio unanime era che il film era una pizza. Quando la proiezione finì, si ritrovarono sul marciapiede senza commenti da fare. Non avevano nessun posto dove andare, così si incamminarono lungo la Main Street in direzione del fiume.

Mi tremano le ginocchia se penso a quello che è successo a Gwen, disse Marilyn Hicks, una ragazza dai capelli biondi e sottili, che portava l'apparecchio per i denti.

— Per cui non ci pensare, la rimbeccò Jenny: quello era un tipico commento alla Marilyn Hicks, disse fra sé e sé sbuffando impercettibilmente.

— Che cosa pensi che le abbia fatto il suo assassino?

— Lo sai benissimo che cosa le ha fatto, le rispose Jenny, che era meno innocente di quanto credessero i suoi genitori.

Avrebbe potuto capitare a chiunque, disse un'altra ragazza, con un tono cupo e allusivo.

— Come Billy Hummel e i suoi amici laggiù? commentò Jenny canzonando l'amica. Stava osservando un gruppetto di ragazzi più vecchi di loro, giocatori della locale squadra di football che, sul lato opposto della strada, aspettavano l'ora di ritornare a casa cincischiando davanti al palazzo dell'azienda telefonica. Si stava facendo buio e Jenny riuscì a mala pena a decifrare le scritte bianche dei loro giubbotti riflesse in una grande vetrina. Avrebbero continuato a rimirarsi ancora per una decina di minuti al massimo, poi si sarebbero stufati e, alla fine, anche loro, si sarebbero trascinati in qualche passeggiata lungo il fiume.

— Mio padre dice che la polizia farebbe meglio a cercare qualcuno più vicino.

— So chi vuol dire, disse Jo. Sapevano tutti a chi si riferisse il padre di Marilyn.

— Ho fame di nuovo. Perché non andiamo al drive-in? Cominciarono a risalire la strada. I ragazzi non diedero alcun segno di averle notate.

— Il cibo del drive-in è una schifezza, disse Jenny. Ci mettono dentro la spazzatura.

— Oh la signorina guastafeste! Sempre la solita.

— E quel film era stupido.

Oh, quanto rompi, Jenny. E solo perché Billy Hummel non ti ha degnata di uno sguardo.

Be' per lo meno penso che non abbia ammazzato nessuno. Ad un tratto si rese conto di essere stufa marcia della compagnia delle sue amiche. Adesso le erano tutte attorno e la fissavano con quei loro sguardi vuoti in attesa che se ne andasse. Billy Hummel e gli altri ragazzi si erano avviati nella direzione opposta: tornavano in città. Si sentiva stanca e delusa: delusa dai ragazzi, dal film, dalle sue amiche. Per un attimo desiderò con tutto il cuore di essere già grande. — Ne ho fin qui del drive-in, me ne torno a casa, disse alla fine. — Tanto, dovrei comunque rientrare fra mezz'ora. — E dai, Jenny, gemette Marilyn. Il tono lamentoso della sua voce fu la classica goccia che fece traboccare il vaso e, con un rapido dietrofront Jenny riprese la strada che portava in centro.

Sentendo gli occhi delle amiche che le trafiggevano la schiena, decise di girare nella prima laterale. Così, almeno, staranno a guardare come allocche una strada vuota, pensò.

La via non era illuminata e Jenny preferì mantenersi al centro della carreggiata. Frammenti di conversazione rimbalzavano dalle finestre delle case vicine. Più avanti c'era qualcuno in attesa, una vaga ombra sul marciapiede invaso dall'erba: forse era un uomo intento a lavare la macchina o a godersi l'aria fresca della sera; oppure era una donna, miracolosamente riuscita a sfuggire per qualche minuto all'assedio dei figli.

In quel momento Jenny si rese conto che, dopo tutto, aveva fame e fu sul punto di prendere una decisione che le avrebbe salvato la vita: tornare indietro dalle sue amiche.

Ma non era più possibile. Con un sospiro, abbassò la testa, affondò le mani nelle tasche della giacca e proseguì verso l'isolato successivo, pensando vagamente al tragitto che avrebbe potuto percorrere per impiegare la mezz'ora di libertà che le restava. Quando oltrepassò l'ombra sul marciapiede notò a malapena che non si trattava di un uomo, ma di un grosso cespuglio.

La strada che imboccò poco dopo era ancor più desolata: due ampi lotti deserti e bui separavano i modesti agglomerati di case: sopra torreggiavano alti alberi scuri, le cui fronde si confondevano con il buio della notte. Ad un tratto, Jenny udì alcuni passi cadenzati alle proprie spalle. Ma quella era Arden, non New York o Detroit, e non ebbe paura fino a quando non sentì qualcosa di duro e smussato colpirle la schiena. Allora, con un balzo, si girò e quando vide la faccia che la stava fissando, capì che stavano per iniziare i momenti peggiori della sua vita.

 

CAPITOLO QUARTO

 

In quel momento non ero affatto certo che avrei accettato l'invito del barista a ritornare l'indomani, ma ventisei ore più tardi, mi ritrovai di nuovo da Freebo's, questa volta non seduto al banco, ma ad un tavolo e non da solo, bensì in compagnia.

Capii di essere ubriaco solo quando mi resi conto che continuavo a schiacciare l'acceleratore tenendo la macchina in seconda. "Grattando", inserii la terza, ponendo fine al cupo lamento del motore; quindi accelerai in direzione della fattoria, zigzagando allegramente sulla strada, come aveva fatto Alison Greening una sera di molti anni prima ... la sera in cui per la prima volta avevo sentito il calore della sua bocca nella mia, e il miscuglio di odori della sua persona - il suo profumo, l'aroma delle sigarette di contrabbando, l'odore del sapone e quello dell'acqua fresca - avevano fatto fremere tutti i miei sensi. Quando fui all'incirca all'altezza del paesaggio italiano e del termometro rosso, mi resi conto che la ragione per cui gli avventori del bar mi avevano lanciato quelle occhiate ostili era legata alla morte di Jenny Strand. Dopo aver girato bruscamente nel vialetto che portava alla fattoria, lasciai la macchina girata in modo strano davanti al garage e arrancai fuori, rischiando di finire lungo disteso sul parafango anteriore. Dalla tasca rigonfia della mia giacca, piena delle pagine appallottolate del saggio di Maccabee, spuntavano la busta e l'allucinante lettera anonima, anch'esse mezze accartocciate. Udii alcuni passi all'interno della casa: poi una porta che si chiudeva. Attraversai il prato vacillando, raggiunsi la veranda ed entrai. Ebbi l'impressione di sentire, attraverso la suola delle scarpe, il freddo delle assi. La casa mi sembrò piena di rumori e potrei giurare di aver visto Tuta Sunderson in due o tre stanze contemporaneamente. «Venga pure fuori» le dissi. «Non ho alcuna intenzione di farle del male.»

Silenzio.

«Va tutto bene. Vada pure a casa se vuole.» Mi guardai attorno, la chiamai, pensando che fosse nella vecchia camera da letto del pian terreno. I mobili di Duane erano perfettamente puliti, ma nella stanza non c'era nessuno. Scrollai le spalle e andai in bagno.

Quando uscii, come per incanto i rumori nella vecchia casa erano svaniti. Si sentiva soltanto il gorgoglio sommesso dell'acqua nei tubi. Era chiaro che, in preda ad una crisi di nervi, Tuta Sunderson se l'era squagliata. Maledissi me stesso, chiedendomi che cosa avrei potuto fare a quel punto per convincerla a ritornare.

Fu in quel momento che udii qualcuno tossire: il rumore proveniva, senza ombra di dubbio, dal mio studio. Il fatto che io fra quelle quattro mura non fossi ancora riuscito a buttare giù nemmeno una frase, aggravava enormemente l'offesa che la signora Sunderson stava arrecando alla mia privacy.

Salii le scale come un fulmine, ma nel momento stesso in cui stavo per fiondarmi dentro la piccola stanza gelida, mi fermai di colpo. Attraverso la finestra vidi la robusta figura di Tuta che, con la borsetta a tracolla che le rimbalzava sul sedere, si allontanava ansimando. Seduta alla scrivania, perfettamente a suo agio, trovai invece Alison Updhal.

«Che cosa diav...» esordii. «Non mi piace per niente...»

«Penso che tu l'abbia spaventata a morte. Era già piuttosto sconvolta di per sé e tu devi averle proprio dato il colpo di grazia. Ma non ti preoccupare, ritornerà.»

 

Dalla Deposizione di Tuta Sunderson:

18 luglio

Quando l'ho visto scendere dalla macchina, ho capito subito che era ubriaco, ubriaco fradicio, e quando ha cominciato ad urlare in quel modo, mi sono detta, Tuta, qui e meglio prendere la porta e andare. Adesso sappiamo che era appena reduce da quella discussione con il pastore giù ad Arden. Io penso che il pastore avesse perfettamente ragione a dire quello che ha detto il giorno dopo, e avrebbe potuto tuonare anche di più. Quando arrivai, Red era già tornato dalla stazione di polizia e naturalmente era sconvolto per quello che aveva visto. - Ascolta, mamma, mi ha detto, non voglio che tu torni a lavorare da quel pazzo, perché mi sono fatto delle idee mie su di lui, ma io gli risposi che i suoi cinque dollari erano buoni come quelli di chiunque altro. Non è forse vero? Avevo lasciato gli altri due dollari sotto una lampada. Oh, io ci sarei tornata eccome. Non mi faceva certo paura. E poi, volevo tenerlo d'occhio.

 

Per un po' né io né Alison aprimmo bocca. Per quanto possa sembrare strano, mi faceva sentire come se fossi io l'intruso, e dal suo sguardo furbo capii che se ne era accorta. Per prevenire qualsiasi commento da parte sua, le dissi: «Non mi piace che gli altri entrino in questa stanza. Deve rimanere privata, mia. La presenza di altra gente ne rovina l'atmosfera.»

«Tuta mi ha detto che non volevi che mettesse piede qui dentro ed è proprio per questo che ci sono venuta. Era l'unico posto tranquillo dove potessi accomodarmi in attesa del tuo ritorno.» Allungò le gambe nascoste dai blue jeans. «Ma non ho preso niente.»

«È una questione di vibrazioni.»

«Io non sento nessuna vibrazione. Comunque che cosa ci fai qui dentro?»

«Ci scrivo un libro.»

«Su che cosa?»

«Non ha importanza. Tanto sono in una fase di stallo.»

«Un libro che parla di altri libri, immagino. Perché invece non scrivi un libro su qualcosa di vero? Perché non scrivi un libro su qualcosa di fantastico e di importante che gli altri non riescono a vedere? Magari su quello che sta succedendo qui.»

«C'era un motivo particolare per cui volevi vedermi?»

«Sì, Zack vorrebbe conoscerti.»

«Magnifico.»

«Gli ho parlato di te e lui si è mostrato molto interessato. Ha detto che tu sei diverso e vuole conoscere le tue opinioni. A Zack interessano molto le opinioni degli altri.»

«Oggi non vado da nessuna parte.»

«Non oggi. Domani verso mezzogiorno. Ad Arden. Conosci il Freebo's Bar?»

«Penso di poterlo trovare alla luce del giorno. Hai sentito che hanno ucciso un'altra ragazza della zona?»

«L'hanno detto in tutti i notiziari. Tu non l'ascolti mai la radio?» Sbatté le palpebre e io vidi che dietro quella sua finta indifferenza, aveva paura.

«La conoscevi?»

«Certo che la conoscevo. Ad Arden ci si conosce tutti. E stato Red Sunderson a trovare il suo corpo. È per questo che questa mattina Tuta era così nervosa. Red l'ha vista in un campo lungo la superstrada 93.»

«Gesù.» Ripensai al modo in cui l'avevo trattata e mi sentii il viso andare in fiamme.

Così, il giorno seguente mi trovai ad entrare sulla scena della mia seconda ignominia in compagnia di Alison Updhal. Nonostante fosse minorenne, varcò la soglia del bar con la massima disinvoltura, come se volesse dimostrare che, in caso qualcuno si fosse sognato di impedirglielo, lei era pronta a buttare giù la porta a colpi d'ascia. A quel punto, naturalmente, avevo capito che si trattava soltanto di un atteggiamento, ma ero ammirato dalla perfezione della sua recita. In fondo, aveva molto più in comune con la sua omonima di quanto non avessi pensato all'inizio. Il bar era pressoché vuoto. Due uomini anziani, vestiti da operai erano seduti al banco, davanti a due bicchieri quasi pieni di birra chiara; un altro signore con la giacca nera sedeva all'ultimo tavolo. Appoggiato al muro, dietro la cassa, circondato dal luccichio intermittente e dalle perenni cascate di birra plastificata delle pubblicità, c'era lo stesso barista, pingue e grigio di capelli, della sera precedente. Lasciò scivolare lo sguardo su Alison, poi spostò gli occhi su di me e mi salutò con un cenno del capo.

Io seguii Alison al tavolo, osservando Zack man mano che ci avvicinavamo. Aveva le labbra serrate e i suoi occhi facevano una rapida spola dal mio viso a quello di lei. Sembrava pieno di entusiasmo e sembrava anche molto giovane. Riconobbi in lui il genere di ragazzi che avevo visto in Florida da piccolo: gli spostati che si radunavano nei pressi dei distributori di benzina, ostentando, in qualche misura, il loro fallimento, a cui sembravano tenere almeno quanto tenevano ai capelli, che non tagliavano mai. Ragazzi che, in certe circostanze, potevano anche essere pericolosi. Non sapevo che quel genere di vita fosse ancora di moda.

«È lui» disse Alison riferendosi a me.

«Freebo» disse Zack facendo segno al barista.

Quando mi sedetti di fronte a lui, mi accorsi che era più vecchio di quanto non sembrasse a prima vista. Non era affatto un ragazzino, ma a giudicare dalle lievi rughe che gli solcavano la fronte e gli angoli degli occhi, doveva avere più di vent'anni. L'entusiasmo apparentemente immotivato che gli illuminava lo sguardo mi induceva ad attribuirgli una certa furbizia di carattere e mi metteva molto a disagio.

«Il solito, signor Teagarden?» mi chiese il barista che si era avvicinato al tavolo. Evidentemente sapeva già che cosa voleva Zack. Evitò di guardare Alison.

«Solo una birra», risposi.

«Non mi ha degnato di uno sguardo neanche adesso» osservò la regina guerriera dopo che il barista si fu allontanato. «Sono allibita. È perché ha paura di Zack, altrimenti mi avrebbe già sbattuta fuori a calci nel sedere.»

Fui tentato di dirle: sta attenta a non tirare troppo la corda.

Zack ridacchiò in perfetto stile James Dean.

Il barista ritornò con tre birre: la mia e quella di Alison erano in normali bicchieri di vetro, quella di Zack in un alto boccale color argento.

«Freebo sta pensando di vendere il locale» disse Zack rivolgendosi a me con un ampio sorriso. «Dovresti comprarlo tu. È un'occasione da non lasciarsi sfuggire. Faresti un buon affare.»

Con gli spostati della Florida Zack aveva in comune anche un'altra cosa: quel ridicolo modo di mettere la gente alla prova. Sapeva di carta carbone. Di carta carbone e di olio per motori. «Forse è meglio che lasci l'occasione a qualcun altro. Io ho lo stesso bernoccolo per gli affari di un canguro.»

La regina guerriera sorrise: evidentemente stavo dimostrando di essere proprio come lei mi aveva descritto.

«Originale. Ascolta, io penso che noi dovremmo parlare.»

«Perché?»

«Perché noi siamo diversi. Non pensi che le persone diverse abbiano qualcosa in comune?»

«Come Jane Austen e Bob Dylan? Dai, piantala. Come mai riesci a fare entrare la tua ragazza di soli diciassette anni in questo bar?»

«Semplice, perché io sono Zack. Io e Freebo siamo amici e lui sa badare al proprio interesse.» Stavo cominciando ad averne abbastanza di quel suo scaltro atteggiamento di finto entusiasmo. «Ma quasi tutti sanno badare al proprio interesse, no? È nel tuo interesse parlare con me, farti vedere intento a mettere a confronto le tue idee con le mie. Sai, Miles, la gente di qui parla ancora di te e io ho appreso diverse cose sul tuo conto. Sono rimasto di sale quando lei mi ha detto che saresti tornato. Dimmi un po', la gente continua a darti la colpa di qualunque cosa succeda?»

«Non capisco quello che vuoi dire. A meno che non ti riferisca a quello che stai facendo tu adesso.»

«Ho-ho» esclamò Zack a bassa voce. «Furbo eh, l'amico! Oh, l'ho capito che sei intelligente, molto intelligente. E ho un sacco di domande da farti. Qual è il libro della Bibbia che preferisci?»

«Della Bibbia?» dissi io, scoppiando a ridere con la bocca piena di birra. «Questa proprio non me l'aspettavo. Non lo so: il libro di Giobbe, o forse quello di Isaia.»

«No. Cioè sì, ho capito, ma non è quello. È il libro dell'Apocalisse. Capisci? E lì che c'è scritto tutto.»

«Tutto che cosa?»

«Il progetto.» Mi mostrò il palmo della sua mano, segnato di cicatrici e di righe d'unto che ormai erano un tutt'uno con la pelle, come se lì potessi vedere stampato il progetto di cui andava cianciando. «È lì che c'è scritto tutto. I quattro cavalieri a cavallo: quello pallido, quello che porta l'arco, quello che porta la spada e quello che porta la bilancia. E le stelle caddero e il cielo scomparve e ogni cosa precipitò. I cavalli con la testa di leone e la coda di serpente.»

Mi voltai a guardare Alison. Lo fissava con l'aria trasognata di chi ascolta per la prima volta una fiaba: eppure, quella storia doveva averla già sentita centinaia di volte. Ebbi l'impulso di battere il pugno sul tavolo: lei meritava molto di più.

«È nell'Apocalisse che si dice che i cadaveri giaceranno per le strade, che ci saranno incendi e terremoti, guerre in cielo e sulla terra. Hai presente le bestie dell'Apocalisse? La 666 era Aleister Crowley; Ron Hubbard è sicuramente un'altra. E poi tutti quegli angeli che mietono la terra, fino a quando c'è sangue per duemila miglia. Che cosa ne pensi di Hitler?»

«Dimmi quello che ne pensi tu.»

«Be', Hitler aveva un sacco di idee demenziali: l'ideale della grande Germania e tutte quelle stronzate sugli ebrei e sulla razza eletta; be' una razza eletta esiste, ma non dipende da una cosa così semplice come fare parte tutti della stessa nazione. Ma lui era una delle bestie dell'Apocalisse, giusto? Prova a pensarci. Hitler sapeva di essere stato inviato per prepararci, come Giovanni Battista capisci, e ci ha dato alcune chiavi di interpretazione, come ha fatto Crowley. Io credo che tu capisca quello che intendo dire, vero Miles? C'è come una fratellanza fra quelli che arrivano a capire queste cose. Hitler era un grande casinaro, d'accordo, però aveva testa. Sapeva che prima di migliorare, le cose devono toccare il fondo, che ci deve essere il caos totale prima che possa esserci la libertà totale; che doveva esserci prima l'omicidio della vita vera. Lui conosceva la realtà del sangue. La passione deve andare oltre il personale, giusto? Vedi, per liberare le cose, bisogna andare oltre il meccanico, bisogna passare per il mito, forse, per il rituale, il rituale del sangue, la mente fisica.»

«La mente fisica» dissi io. «Come l'oscura sede della passione e la colonna di sangue.» Citai queste due frasi fatte per disperazione. L'ultima parte della filippica di Zack mi aveva fatto pensare ad alcuni temi delle opere di Lawrence e questo mi aveva notevolmente depresso.

«Accidenti!» esclamò Alison. Avevo fatto colpo su di lei. Questa volta davvero non so che cosa mi trattenne dal picchiare il pugno sul tavolo e saltare per aria.

«Lo sapevo amico» riprese Zack rivolgendomi uno sguardo radioso. «Dobbiamo parlare ancora. Potremmo parlare per secoli. Non riesco quasi a credere che sei un insegnante.»

«Nemmeno io.»

Questa mia risposta lo rese talmente felice che diede una pacca sulla coscia di Alison. «Lo sapevo. Lo sai, la gente dice tante cose di te e io non sapevo se crederci oppure no... Ah, ho un'altra domanda. Tu hai mai degli incubi?»

Mi ritornò alla mente l'agghiacciante sensazione di essere sospeso in quell'orrore blu che si muoveva. «Sì, ogni tanto.»

«Lo sapevo. Lo sai che cosa sono gli incubi? Sono come delle profezie. Si infilano nella merda della nostra vita per farci vedere quello che succede davvero.»

«Quello che succede davvero negli incubi» dissi io. Non volevo certo che si mettesse ad analizzare i miei stati onirici. Mentre Zack blaterava avevo ordinato altre due birre e adesso chiesi a Freebo di portarmi un Jack Daniels doppio, per calmarmi i nervi. Zack aveva la faccia di uno che si aspetta di essere o accarezzato o preso a calci. Aveva il viso magro, circondato da due folte basette e da quello strano ciuffo alla Elvis Presley. Quando il whisky arrivò ne trangugiai metà in un unico sorso e aspettai che facesse effetto.

Zack continuò. Non pensavo che la violenza fosse un atto mistico? Che fosse egoismo? Non ero convinto anch'io che il Midwest fosse il posto in cui la realtà era più tenue, in attesa che erompesse la verità? Quei due omicidi non ne erano forse la prova? Non potevamo fare in modo che la realtà si attuasse?

Dopo un po' io scoppiai a ridere. «Quello che dici mi fa venire in mente la Casa dei Sogni del padre di Alison.»

«La casa di mio padre?»

«La sua Casa dei Sogni. Quella dietro il negozio di Andy.»

«Quella casa è sua

«L'ha costruita lui. Io pensavo che tu lo sapessi.»

Alison mi stava fissando con la bocca spalancata. Zack, invece, era palesemente irritato per il fatto che avessi interrotto le sue farneticazioni. «Non ne ha mai fatto parola. E perché mai ha costruito una casa come quella?»

«È una vecchia storia» dissi io, già pentito di aver tirato in ballo quell'argomento. «Ero convinto che fosse considerato da tutti un luogo stregato.»

«No, non l'ha mai pensato nessuno» rispose Alison continuando a fissarmi con tenace curiosità. «Noi ragazzi ci andiamo spesso, perché lì non viene a disturbarci nessuno.»

Mi vennero in mente il groviglio di coperte e i mozziconi di sigaretta sul pavimento marcescente.

Zack disse: «Senti, io ho un'idea.»

«Ma perché l'ha costruita?»

«Questo non lo so.»

«E allora perché l'hai chiamata la sua casa dei sogni?»

«Senti, non è niente di importante; per cui chiudiamo qui il discorso e dimentica di avermene sentito parlare. D'accordo?» Ma lei cominciò a guardarsi attorno come se cercasse qualcuno che avrebbe potuto raccontarle tutta la storia.

«Devo assolutamente dirti la mia idea...»

«Be', lo chiederò a qualcun altro.»

«Ho fatto alcune cose...»

«Lascia perdere» le dissi. «Fa conto che non ti abbia detto niente e non ci pensare più. Adesso io torno a casa. Mi è venuta un'idea.»

Il barista era di nuovo accanto a noi. «Questo signore qui è un uomo importante» disse mettendomi una mano sulla spalla. «Ha scritto un libro. È una specie di artista.»

«Penso che scriverò anche alcuni romanzi. Vi piaceranno. Sono sicuro che saranno proprio di vostro gusto.»

 

«Pensavo che ti avremmo visto in chiesa oggi.» Duane indossava il solito vecchio abito a righine, che metteva tutte le domeniche per andare alla funzione, da oltre dieci anni. Ma, in qualche modo, anche lui aveva subito l'influenza della moda casual: sotto la giacca a doppio petto indossava una camicia azzurra con disegni in tinta, senza cravatta. Doveva avergliela regalata Alison. «Ne vuoi un po'?» mi chiese indicando una pentola che Alison aveva messo a bollire sul fuoco. «Oggi è il giorno libero di Tuta, se non sbaglio.» Sollevò il coperchio: a prima vista sembrava stracotto di maiale con fagioli, tenuto insieme da un'eccessiva quantità di salsa di pomodoro. Come il disordine generale della cucina, anche il contenuto di quella pentola avrebbe mandato su tutte le furie sua madre, che era solita preparare pranzi luculliani a base di carne arrosto e patate che faceva bollire così a lungo che alla fine si disfacevano come il gesso. Quando io scossi la testa in segno di diniego lui disse: «Dovresti venire in chiesa, Miles. In qualunque cosa tu creda, farti vedere alla funzione ti aiuterebbe molto agli occhi della comunità.»

«Ma Duane, sarebbe l'atto più sfacciatamente ipocrita che potrei compiere. In genere tua figlia ci va?»

«Qualche volta. Non sempre. In fondo ha poco tempo per se stessa: si occupa di me e della casa e così io non me la prendo se la domenica dorme un po' di più o va a trovare qualche sua amica.»

«Come oggi, per esempio?»

«Sì. Per lo meno questo è quello che mi ha detto. E io mi fido di lei come ci si può fidare di una femmina. Perché me lo chiedi?»

«Oh, niente. Dicevo così, tanto per dire.»

«Be', ha diritto di vedere i suoi amici ogni tanto, chiunque essi siano. Comunque, Miles, oggi saresti proprio dovuto venire.»

Solo allora percepii l'enfasi nella sua voce, di cui mi sarei dovuto accorgere prima. Non era strano che Duane indossasse ancora l'abito della festa, visto che la funzione era terminata da un'ora? E che se ne stesse seduto in cucina anziché andare fuori nei campi a lavorare almeno un'oretta prima di pranzo?

«Perché proprio oggi?»

«Che cosa ne pensi del Pastore Bertilsson?»

«Te lo risparmio. Perché?»

Duane continuava ad accavallare nervosamente le gambe; era chiaro che si sentiva a disagio. Ai piedi calzava scarpe sportive impeccabilmente lucide.

«A te non è mai piaciuto, vero? Lo so. Forse il giorno del tuo matrimonio ha superato un po' il limite. Non penso che avesse il diritto di tirare in ballo quelle vecchie storie, anche se l'ha fatto senz'altro per il tuo bene. Quando mi sono sposato io non ha parlato dei miei vecchi errori.»

Sperai in cuor mio che sua figlia si fosse dimenticata del mio accenno alla Casa dei Sogni: era stato un grande tradimento da parte mia. Mentre cercavo di pensare a come dirgli che, involontariamente, avevo rivelato ad Alison il suo segreto, senza però dirle niente di concreto, Duane vinse il proprio nervosismo e sputò il rospo.

«Comunque, come ti stavo dicendo, oggi il Pastore ha parlato di te nella predica.»

«Di me?» strillai. Il mio senso di colpa svanì all'istante.

«Aspetta, Miles, non ha fatto il tuo nome. Però abbiamo capito tutti che si riferiva a te. Dopo tutto, tu ti sei fatto conoscere bene nella zona, anni fa. Per cui penso che se non tutti, la maggior parte abbia intuito di chi stava parlando.»

«Stai dicendo che adesso su di me si scrivono anche le prediche? Mi fa piacere, sono davvero un uomo di successo.»

«Be', avresti fatto meglio ad esserci. Vedi, in una comunità di queste dimensioni, in una piccola comunità come questa ci si riunisce tutti quando succede qualche guaio. Quello che è accaduto a quelle due ragazze è terribile, Miles. Io penso che un uomo che fa una cosa del genere meriterebbe di venire ammazzato come un maiale. Comunque il fatto è che noi sappiamo che non può essere stato nessuno di noi. Forse qualcuno di Arden, ma non qualcuno di noi quassù.» Si dimenò sulla sedia. «Intanto che ti dico questo, approfitto per parlarti anche di un'altra cosa: non ti conviene andare in giro a dire che vorresti vedere Paul Kant. Comunque questo è tutto quello che voglio dire sull'argomento.»

«Che cosa significa questo discorso, Duane?»